Ossessioni quotidiane



Ossessioni quotidiane # 1
di Cristian Giodice

Ho un problema, un solo problema, tutti gli altri sono conseguenze di questo. È un problema che mi rovina le giornate dal primo mattino fino a sera, quando esausto mi abbandono sul letto pensando che domani andrà meglio.
Se è una questione di acqua o un’insufficienza della guarnizione, non mi è dato saperlo. L’unica certezza è che accade tutti i giorni.
La sera, per abitudine, preparo la moka per la colazione del giorno appresso, cercando di usare la massima attenzione nel rispettare gli equilibri tra gli elementi. Durante queste operazioni ne immagino il sapore, l’aroma che avvolgerà la stanza e la conseguente sigaretta. Tutto sembra lineare e non lascia margini d’errore riconoscibili; mi corico fiducioso e carico di buoni propositi.
Il suono stonato della sveglia è un precipitare violento dal volo onirico, un ripiombare traumatico nella realtà, che è fatta di un cielo nuvoloso, troppo giovane per dirsi giorno, e ronzio nelle orecchie.
Dopo essere sceso faticosamente dal letto, il primo gesto che faccio è accendere il fornello piccolo e metterlo a minimo. Nel frattempo toilette, deodorante, vestiti. Nel momento di allacciare le stringhe delle scarpe, già l’ansia da risultato s’impadronisce della mia mente ancora ovattata. Quando mi avvicino sono teso, visibilmente contratto, rigido. Alzo il coperchio borbottante con fare incerto, socchiudendo gli occhi nell’evocare il successo; riabbasso il capo e guardo dentro, le ginocchia cedono impercettibilmente e uno sbuffare spontaneo rimbalza sulle pareti.
Ci risiamo, non esce e quel poco caffè che ne è venuto, bolle impaziente.
Scatta il piano B.
Come la tradizione popolare vuole, per ovviare a tale incomodo, passo la base della moka sotto l’acqua fredda; poi di nuovo sul fuoco, sempre basso, per un altro paio di minuti.
Cerco di distrarmi ed eludere il nervosismo crescente che sento salirmi in petto, controllando la posta elettronica. Nessun nuovo messaggio e torno ai fornelli.
Inevitabilmente, l’insuccesso perpetuo mi si palesa agli occhi per l’ennesima volta: un dito di caffè, non di più. Prendo la tazzina, lo verso che non la riempie nemmeno per metà.
Sono furibondo quando aggiungo lo zucchero a quell’intruglio e giro, movendo il cucchiaino con fatica; sono già stanco. Porto la tazzine alle labbra, un sapore forte che sa di bruciato mi inibisce le papille gustative e la bocca mi si contrae in una smorfia di schifo.
Dal vaso poggiato sul davanzale della cucina, un cactus, sadicamente irto e acuminato, mi rammenta che oggi è lunedì e la settimana è appena iniziata.


Ossessioni quotidiane # 2
di Cristian Giodice

Quando arrivo a scuola, anche se è lo scoccare dell’ora, passo dal bar. Ordino un cappuccino per ovviare al ribrezzo che quello sputo di caffè, fatto a casa, mi ha lasciato in bocca.
Lo chiedo tiepido, rigorosamente tiepido. È un’abitudine che ho dall’adolescenza, quando una minuta creatura, che a quel tempo mi governava il cuore, mi disse che troppo caldo, il cappuccino, rovina lo smalto dei denti; «Sia mai!», esclamai e da quel giorno non andai mai più oltre il tiepido.
La signora al banco mi guarda con preoccupazione, riesce a soddisfare la mia richiesta una o due volte su dieci. Lei scompare per qualche istante dietro la macchina del caffè; poi riapparendo, cerca di distrarmi chiedendomi degli alunni o facendo considerazioni calcistiche. Io rispondo monosillabicamente, scrutando con sguardo austero le operazioni di dosaggio. Quando poggia la tazza sul piattino, preparato precedentemente sul bancone, ho già la bustina dello zucchero tra le dita, aperta. Verso lentamente il granulato, mentre la signora del bar si defila con discrezione, e mescolo il composto in senso antiorario, come vuole l’uso mancino.
 Le labbra toccano lo schiumoso liquido e un filmine mi parte dagli occhi, andando a incenerire la donna che, intimidita, sta sistemando i cornetti nella vetrinetta. È troppo caldo!
Pago ed esco, senza nemmeno salutare, mentre da dietro il bancone due occhi perniciosi mi maledicono. Percorrendo il corridoio bramo una vendetta spietata, violenta; ma l’unica cosa che so fare, entrando in aula, è promettere la bocciatura a qualcuno.

Ossessioni quotidiane # 3
di Cristian Giodice

Rientro a casa che è passata da poco l’ora di pranzo convenzionale e io devo ancora mangiare. Di solito ho lo stomaco chiuso, per tutte le sigarette che fumo durante la mattinata; oggi però ho appetito, un gran bel appetito. Così, quando l’uscio si chiude alle mie spalle, già scruto il pentolame, per scoprire con cosa, la mia dolce, ha deciso di rinvigorirmi.
Cotoletta, bieta ripassata e uova sode: che bontà!
Comincio a scaldare le vivande che il palato mi saliva copiosamente e cerco di allentare le morsa della fame con un pezzo di pane trangugiato in fretta e furia, che quasi mi strozzo.
Mentre giro la verdura penso a lei, che è andata a lavoro; avendo orari opposti, ci incontriamo solo la sera e questa cosa pesa, non c’è che dire. Allora cerchiamo di coccolarci a distanza preparandoci vicendevolmente il desinare. Lei mi cucina sontuosi pranzetti e io ricambio con romantiche cenette.
Quando tutto è caldo, lo dispongo ordinatamente nel piatto in quest’ordine orario: cotoletta, uova, bieta. Porto a tavola, dove tutto è apparecchiato: tovaglietta all’americana, bicchiere sulla destra e le posate allineate sotto. Seggo, prendo la forchetta e inforco; il primo boccone mi inebria i sensi. Cerco il tovagliolo per pulirmi la bocca, voglio bere un sorso d’acqua.
Ma aimè non lo trovo, o meglio, non è al suo posto; non è al posto dove l’uso comune lo ha collocato secoli addietro. Lo scorgo invece dal lato opposto del piatto e il sangue mi sale al cervello, lo stomaco si serra e la fame scema desolata.
Alzandomi sbatto i pugni sul tavolo e penso alla cena di sta sera e non credo più che sarà poi tanto romantica. 


Ossessioni quotidiane # 4
di Cristian Giodice


Se esiste il paradiso, io non ci andrò; ma nemmeno ci tengo.
Se ne esiste uno per gli esseri umani, perché non dovrebbe esistere un paradiso anche per animali, piante e oggetti?
Quando mi posi per la prima volta questa domanda, che negli anni a seguire si sarebbe ripresentata con puntualità cadenzata e ricevendo ogni volta una risposta diversa, ero poco più che un bambino.
A quei tempi, però, l’indottrinamento religioso m’indusse a dare per certa anche l’esistenza di un paradiso delle saponette finite, o volgenti al termine: cosicché, ogni qual volta mi si presentasse l’occasione, concedevo all’oggetto in agonia, una breve onoranza funebre e ne sacrificavo i resti al gorgogliare eterno del water.
Ora.
Succede che, circa un mese fa, poggiato in un angolo del porta sapone, un mozzicone rosato di saponetta tirava i suoi ultimi sospiri. In automatico, il rito funebre, mi ha fatto capolino nella memoria, riemerso dal dimenticatoio più antico e, togliendomi ogni possibilità di dispensarmi dal compierlo, le mani si porgevano nel raccoglierne i resti. Quindi, mi arrovellavo il cervello per ricordarne la litania che accompagnava il compiersi della cerimonia, ma una memoria labile, scalfita da anni di vizi, non è certo raccomandabile per simili pratiche.
E che l’ira mi avesse colmato la frustrazione del ricordo mancato, è un particolare che non va dato per scontato; ma che, per espiare la memoria menomata, il mio fare ossessivo ha partorito una trovata a dir poco geniale, questa sì che è una reazione scontata: che il mio corpo non tocchi più sapone, finché il cervello non ritrovi quel sermone!
La memoria, si sa, non è fidata, soprattutto se piuttosto squilibrata; ma è l’ossessione che mi ha fregato: da quel giorno non mi sono più lavato.